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Io come scrittore
L'assassinio di un amico
L'amicizia raddoppia le gioie e divide in due le sofferenze.
(Francis Bacon)
Mi trovavo al “due Spade”, un bar notturno di Mestre. Giusto una vodka ghiacciata, poi sarei tornato a casa a piedi. Locale di lusso frequentato da belle signore disponibili. Era una serata calda di settembre, ideale per sognatori e innamorati. Per me regnava il gelo, il gelo invernale della tristezza. Walter, un mio amico poliziotto verso il quale nutrivo stima e affetto, era morto; era stato ammazzato come un cane da un bastardo senza scrupoli. Avevo scoperto il colpevole, a caro prezzo. Ma era il mio mestiere. Rimaneva però un grande sconforto, leggete e capirete. In seguito a questo fatto luttuoso, si creò un gran vuoto dentro me, e un senso acuto di infelicità. Fui assalito da una gran voglia di volare via e cambiare pianeta, ce ne fosse stato un altro.
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Volevamo indossare la divisa entrambi, sapevo che Walter aveva più possibilità, ma alla fine, ci dichiararono ambedue abili e con i requisiti giusti. Ci rimasi poco, giusto il tempo di compiacermi dell'effetto che facevo alle donne vestito da poliziotto. Ero in coppia col mio amico, ma quando ci divisero, mi assalirono i primi dubbi. Il mio nuovo collega, di nome Fabio, cercò di corrompermi, ma rifiutai di stare al gioco. Quello allora mi minacciò e disse che se avessi fatto rapporto al nostro superiore per il suo comportamento, mi avrebbe incastrato. Godeva di protezione dall'alto. Fabio andò allora a far coppia con Walter, e so che rifece il giochetto con lui. Il mio amico fece finta di accettare, mentre il sottoscritto si dimise e cominciò a lavorare in proprio. Proprio un anno prima della morte di Walter
Una settimana prima, Walter, agente di polizia, entrò in questo stesso locale, il “due spade” e andò al banco rivolgendosi al barista:
«Ciao Alfredo, come butta? Un mio collega dice che ho bisogno di rilassarmi e di venire qui perché stasera ne vale la pena.» Il barista, un grassone e con folti baffi, si volse a rispondere mentre si asciugava le mani con la traversa.
«Ciao amico. Dai un'occhiata attorno, stasera butta bene.» Suggerì indicando, con uno straccio in mano verso un tavolo immerso nella penombra.
«Versami della Sambuca, marca speciale.»
«Volentieri. Ghiaccio?»
«Ovvio, e mettici un po' di “mosche”.» Il poliziotto, mentre attendeva il bicchiere col liquore, diede un'occhiata in giro con diffidenza, questione di abitudine. Poi cambiò atteggiamento e si rilassò, perché, come suggerito dal barista, era una buona serata. Bisognava solo stabilire per chi. Il suo sguardo si soffermò sul tavolo indicatogli da Alfredo, dove incrociò un paio di occhi. Si voltò adagio, e chiese:
«Alfredo, chi è quella tipa?» Walter era un bell'uomo: alto, sguardo magnetico, longilineo e con parecchia cultura. A lui le donne non mancavano di certo.
«Si chiama Edna, si può tentare con lei, ma accetta la compagnia solo se le sei simpatico.» Alfredo porse il bicchierino al poliziotto e ricompose il ciuffo a coprirgli bene la calvizie sulla nuca. Prese quindi lo straccio sporco e lo passò, per abitudine, sul piano consumato del bancone.
«Basta provare.» Aggiunse Walter.
«Ehi ehi, amico!»
«Csa c'è?»
«Nascondi la pistola, non è il caso farle sapere che vai in giro ad ammazzare la gente.» Il poliziotto sorrise e fece come suggerito. Era comunque difficile nascondere una Smith & Wesson 637.
«Posso?» La donna squadrò Walter e le scappò un mezzo sorriso. L'altro mezzo lo trattenne di riserva. Era comunque un consenso. A lui le donne dicevano si, sempre e comunque. Non aveva bisogno di pagarle, ma questa era in vendita. La tipa si portava addosso qualcosa che gli faceva venire in mente qualcos'altro che non ricordava. Ma non volle sforzarsi. Quando si trattava di donne Walter era istintivo, senza cautela.
«Spero di non disturbare. Sono Walter, piacere.» La donna porse la mano, bianca, sottile, con unghie aggressive.
«Edna, piacere, non disturba affatto.» Walter le baciò la mano, una manina fredda e sottile. Non tutti baciano la mano, ma il poliziotto aveva classe, e riteneva Edna parecchio carina: non tanto alta ma longilinea, capelli neri corti, trucco leggero e occhi grigi come la brace spenta. Quella sera idue cenarono al Burchiello, locale intimo e caratteristico dove servivano come specialità, dell'ottimo pesce. La femmina era a proprio agio e rideva parecchio. Walter sapeva essere divertente. Se non fosse stato un poliziotto, avrebbe voluto fare il bagnino, sicuro come il Vangelo. I bagnini rimorchiano facile; non vanno in giro in cerca di avventure. Finito di cenare, si diressero a casa del poliziotto. Luci soffuse, ambiente caldo e sul tavolo del salotto, un mucchio di scartoffie e fotografie. I due filavano bene, Walter era un istrione consumato e aveva riempito d'attenzione l'ospite, e i bicchieri di Sambuca.
«Allora saresti un poliziotto, eh?»
«E' un lavoro come un altro.»
«Non penso proprio. E adesso su cosa stai indagando?»
«Roba importante, bimba, ed è meglio che tu non sappia nulla.»
«Oh beh, per quello che me ne importa... ma si tratta di droga?»
«Posso solo dirti che sono sulla pista giusta, mi ci vuole solo una prova definitiva. Vedi, a volte le persone che ti stanno accanto ti tradiscono e quando lo fanno, una grossa fetta del tuo mondo crolla e non lo ricomponi più. È frustrante e pensi che non ci sia nulla che valga la pena di vivere.»
«Chi ti ha tradito?»
«Ti ho detto anche troppo. Ognuno deve fare il proprio mestiere, ognuno è tagliato per qualcosa.»
«Cosa vorresti dire? Che una puttana non deve interessarsi d'altro?»
«Questo lo dici tu. Quel che fai è una tua scelta.»
«Ascolta, amico, non so se te ne sei accorto, ma se parli così, commetti un reato grande come una casa: favoreggiamento alla prostituzione, ti basta?»
«Dipende dai punti di vista. Se ci stai e me la cali gratis non c'è reato. Niente soldi, niente capo d'accusa.»
«Non farai mica lo stronzo con me? Anche i poliziotti subiscono conseguenze.»
«Su, su calmati, non roviniamo la serata. Ti verso da bere.» La donna si acquietò e si rilassò sullo schienale del sofà. Socchiuse gli occhi e si immaginò qualcosa che le fece bene. Un po' d'alcol l'avrebbe mandata in estasi.
«Si, caro, ma per piacere non umiliarmi. Che ne sai tu della mia vita?»
«Non so nulla della tua vita ma è meglio che rimanga ignorante.» La donna lo guardò tutto come a contemplarlo, poi sospirò:
«Ma non ti fai una doccia? A me gli uomini piacciono profumati.» Walter alzò il culo con tutta la sua eleganza riavviandosi con una mano il folto ciuffo e si diresse verso il piano dove teneva i liquori. Riempì un bicchierino e lo portò a Edna. Quindi si tolse le scarpe e sparì oltre la porta del bagno. La donna rimase sola, bevve piano piano e indolente, andò a sdraiarsi sul letto in camera. Pensò che quello era un bell'appartamento, comodo, accogliente e si sentì un po' felice. Si alzò e girovagò per la stanza dando qua e là occhiate furtive. Poi, in silenzio, tornò in salotto. Sul tavolo, c'erano carte e fotografie. Col telefonino fotografò ciò che le destava interesse e tornò subito a coricarsi. Si addormentò e si svegliò dopo un'ora accorgendosi di essere sola. Si alzò e mise le cuffiette per ascoltare della musica. Si recò nel bagno. C'era parecchio vapore, come se il locale fosse immerso nella nebbia e aprì la finestra. Il vapore diradò velocemente. Edna notò che l'ambiente era arredato con gusto. Lo stile e i tenui colori erano appropriati al carattere galante del poliziotto. Andò distrattamente allo specchio e ciò che vide riflesso alle sue spalle la fece sobbalzare dal terrore. Istintivamente si tolse le cuffie: non l'aveva notato prima, ma c'era un uomo nel box doccia, un uomo accasciato che col corpo premeva contro la parete di vetro. L'acqua scorreva ancora ed Edna, titubante, si avvicinò aprendo l'anta. Walter guardava fisso verso l'alto, verso di lei. Sembrava scrutasse il cielo con attenzione. Chiuse immediatamente l'acqua e tastò il polso all'uomo. Pulsazione zero. Poi si accorse del sangue, di quell'enorme quantità che l'acqua non era riuscita a portarsi totalmente appresso.
Denso e scuro, formava una netta scia; e altro ancora fuoriusciva a fiotti dalla schiena del poliziotto. L'uomo aveva la testa e il corpo ancora insaponati. Atterrita realizzò che si trovava a casa di un poliziotto morto. Non poteva trovarsi in un contesto peggiore. L'avrebbero condannata senza processo e nella confusione che regnava nella sua testa, si immaginò esageratamente che le avrebbero inflitto una pena molto dura, addirittura la pena capitale. Pena molto dura, pena capitale. Era innocente, ma chi le avrebbe creduto? Fu assalita dallo sgomento. Si diresse verso la cucina ma cambiò idea e andò in camera. Inciampò, cadde per terra e si ritrovò gli indumenti di Walter in faccia. Una cosa dura e spigolosa le premette in fronte; era una pistola. Inorridita emise un urlo, e non sapendo che fare, si recò al lavandino della cucina e si rinfrescò la faccia. Cercò quindi di calmarsi versandosi una Sambuca e tentò di riflettere. C'era un testimone che l'aveva vista assieme a Walter: era Alfredo il barista. Inutile fuggire, l'avrebbero braccata e sicuramente catturata; perché nulla è più facile da acciuffare di una donna che scappa. Non c'era alternativa che chiamare la polizia, dopotutto come detto, era innocente e voleva credere nella giustizia. Se fosse stata convincente spargendo un po' di lacrime e raccontando la storia della sua infelice infanzia, le avrebbero creduto e avrebbe evitato la pena di morte anche perché incensurata. Era una brava donna, non come le altre. La vita era stata dura e per campare aveva dovuto fare delle scelte importanti, a volte sbagliate come prostituirsi, La sua unica, passata opportunità, era da tempo sfumata. Aveva avuto un uomo, Orlando, ma questi si era invaghito di un'altra donna, lasciando lei da sola in mezzo ai guai. Edna si sentiva sfortunata in amore. Voleva consultare un astrologo, lo aveva fatto anche una sua amica fortunata, quella che le aveva soffiato il suo Orlando.
«Polizia, commissario Terenzi. Chi parla?»
«Aiuto, c'è qui un morto.»
«Si calmi. Ci dica il suo nome.»
«Mi chiamo Edna Anastasi.»
«Dove si troverebbe questo cadavere?» La donna diede l'indirizzo al commissario e quello, a sentire il nome della vittima, chiamò subito Fabio, il collega che faceva solitamente coppia nelle indagini con Walter. Chiamò anche me che sarei un investigatore privato, Walter era un mio vecchio amico. Fabio uno smilzo dallo sguardo fisso e occhi color albicocca, era già in commissariato e si presentò a Terenzi sudato e nervoso, pareva avesse appena fatto una corsa e stranamente non aveva la giacca. Ci trovammo, di lì a poco, tutti nell'appartamento di Walter. Ero pensieroso, qualcosa non quadrava. Mi accorsi di pensare alla giacca di Fabio. Un poliziotto non si presenta mai senza giacca. A Fabio poi, essendo longilineo, l'indumento gli cascava bene. Inoltre come detto, era molto sudato o forse bagnato. Come entrò nell'alloggio prese Edna per un polso e le mollò uno ceffone.
«Sei una cagna spudorata. Sappiamo chi sei e cosa fai. Perché lo hai ammazzato?» Conoscevo Fabio lo smilzo da tempo, non mi era mai andato a genio e bloccai il suo braccio in procinto di colpire ancora. Era corrotto fino al midollo e gli piaceva picchiare le donne. Lo faceva per puro gusto di farlo.
«Attento, non lo sai che le donne non si picchiano? Picchia me piuttosto.» Con Walter avevo avuto un rapporto schietto, sincero e mi confidava i particolari del suo lavoro, ma non aveva mai fatto nomi. Si lamentava però del collega perché privo di umanità ed era ignorante e vizioso. Lavoravano in coppia e ultimamente indagavano su un tizio di nome Bartolo, malvivente violento dedito alla prostituzione e al traffico di stupefacenti. Sopra Bartolo ci stava qualcuno di più potente e Walter li avrebbe inchiodati di sicuro, doveva solamente concludere le indagini. Per farlo occorreva però la prova regina conclusiva e sapeva di potercela fare. Lui sapeva, ne era consapevole, che dalla sua aveva la legge e la giustizia. Questo Bartolo sapeva sempre in anticipo le mosse di Walter. Aveva un confidente, uno che lo informava delle mosse e delle retate.
Terenzi calmò gli animi. Chiese alla donna come avesse conosciuto il poliziotto morto e cosa ci facesse a casa sua. Edna raccontò tutto dimostrandosi, senza farsi troppo pregare, molto collaborativa. Aveva paura di un'eventuale condanna. Io ne approfittai, visto che nessuno mi badava, per entrare nel bagno. Il mio amico Walter era lì, guardava in alto e pareva sorridesse. Provai una gran pietà ma ebbi la prontezza di abbassarmi verso il morto e di impregnare un kleenex nel liquido che ancora Walter aveva tra i capelli. Quel sapone o shampoo, aveva un odore intenso, sicuramente era un prodotto specifico. Furtivamente misi il fazzoletto in tasca e mi alzai. Terenzi mi chiamò, e volle dare un'occhiata anch'egli al collega morto. Dopodiché telefonò alla “scientifica” per far perquisire l'appartamento. Ci recammo quindi tutti in commissariato per la deposizione. La donna collaborò senza farsi pregare e fu precisa sul decorso dei fatti. Fabio ebbe ancora uno scatto d'ira e io capii che conosceva già la donna. Sosteneva che il povero Walter era morto perché aveva ricevuto una coltellata alla schiena dall'unica persona presente in casa. E quella persona era lei. La donna scoppiò allora in lacrime, giurava che era innocente e che non aveva nessun motivo per commettere quell'omicidio. L'arma del delitto però non era stata trovata, ma era questione di tempo, ci avrebbe pensato la scientifica.
Fabio conosceva il due spade e di conseguenza gran parte degli avventori. Con la donna aveva avuto, poco tempo prima, una discussione proprio in quel locale. Erano seduti ad un tavolo e lei lo aveva pubblicamente umiliato rifiutando la sua compagnia ed allontanandolo in malo modo. Era stufa delle sue scenate e gli intimò d'allontanarsi. I due si conoscevano da tempo e vivevano un rapporto conflittuale a causa del carattere violento dell'uomo. Ma il poliziotto era uno che non dimenticava e non gli sembrava vero di aver trovato, ora, l'occasione per vendicarsi. Lei gli apparteneva ma a modo suo, e gli doveva rispetto e obbedienza.
«Posso sapere, Fabio, dov'è la tua giacca?» Chiesi al poliziotto che non smetteva di fissare Edna con cattiveria.
«Non l'ho portata, avevo caldo e l'ho lasciata a casa. Non è vietato.» Rispose spigoloso.
«Strano, l'indossi sempre.» Terenzi ci guardò con aria interrogativa e comunque dopo mezz'ora ci invitò a tornarcene a casa e ci accompagnò all'uscita. Non aveva voluto approfondire la faccenda della giacca e mi parve molto strano. Trattenne però Edna per redigere il rapporto.
Il giorno dopo il commissario chiamò in ufficio e rispose Gilberto.
«Capo, c'è un tuo amico al telefono.»
«Quale amico?»
«Dice di essere commissario di polizia. Sarà vero?»
«Dai qua e lascia perdere i commenti.»
«E se poi non fosse vero? Sai, con tutti questi matti in giro....»
Presi il telefono. In effetti era il commissario. Gilberto dimostrava diffidenza e il mio assistente non sbagliava mai.
«Sono Terenzi. Riguardo quella donna, Edna, l'ho lasciata andare, non è lei la colpevole.»
«No? E come lo sai? E chi sarebbe allora?»
«C'è l'indagine in corso, ti saprò dire. Comunque sei stato tu a mettermi una pulce nell'orecchio.»
«Spiegati.»
«Domattina vieni nel mio ufficio e lo farò.» Chiudemmo la comunicazione e rimasi perplesso. Possibile che Terenzi avesse già risolto il caso?
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Il giorno dopo, puntuale come la morte, ero da Terenzi. Negli ultimi tempi però la nostra amicizia si era molto affievolita per vecchie losche faccende.
Mi aveva accompagnato Gilberto al quale avevo chiesto di impossessarsi della giacca di Fabio, sicuro fosse ancora dove l'avesse lasciata quest'ultimo, e di sostituirla con una mia vecchia che avevo portato e che era in un sacchetto. Gilberto non fece domande, quelle le lasciava a me. Comunque chiese ad un agente dove fosse il bagno e quello glie lo indicò. Il mio assistente sparì e lo rividi più tardi all'uscita che mi aspettava.
Terenzi era sempre un bell'uomo ma quel maledetto mestiere lo invecchiava. Cominciava ad ingrigire, anche se il suo fascino rimaneva immutato. D'altronde nella vita fai una scelta e questa non compensa mai nulla: ti prende per mano, ti imborghesisce e ti pone su una panchina ad invecchiare. Era chino su certe scartoffie e leggeva muovendo le labbra; sicuramente si trattava di aggiornamenti su disposizioni interne da decifrare. Un altro motivo per il quale avevo abbandonato il servizio di polizia, erano le scartoffie e la burocrazia. Instillavano in me un senso di impotenza. Sulla fronte del commissario, le rughe erano aumentate e la barba era abbandonata a se stessa. Un brutto vedere.
«Dimmi Terenzi, cos'hai scoperto?» Senza togliere lo sguardo dai fogli, rispose:
«Caro amico mio, come stai?» Il commissario firmò qualcosa e si alzò.
«Non mi piace la tua risposta, cosa ti serve?» Mi ero insospettito. Socchiusi gli occhi mettendo a fuoco la figura dell'uomo che avevo davanti.
«Ma nulla, piccole cose, quisquilie.» Il mio amico non aveva il senso dell'umorismo, e se in quel preciso istante sorrideva, sicuramente c'era un motivo. Scartò una caramella e se la ficcò in bocca sempre sorridendo, ma gli veniva male, non era abituato. Qualcosa di serio era accaduto, lapalissiano. Lo evincevo dai suoi movimenti. Era palesemente nervoso e ostentava allegria. In passato era stato coinvolto, me lo ricordavo bene, in una indagine importante riguardante una rapina. Terenzi in quell'occasione aveva dato le dimissioni ma poi era stato reintegrato per non so quali giochi di potere. Io mi ero un pò dissociato dalla sua amicizia; se ci fosse stata per un qualche motivo un'inchiesta interna, probabilmente insieme alla sua, sarebbero cadute molte altre teste, e per quest mi tenevo discosto da lui. E allora sbottai:
«Spara, Terenzi, non girarci troppo attorno.» Il poliziotto fece nervosamente un passo di lato, poi tornò indietro tenendo le mani dietro la schiena. Borbottava, poi si mise a camminare; piccoli passi, pareva li contasse.
«Glauco, da quanto tempo ci conosciamo?»
«Da un bel po: da ragazzi mi rubavi le fidanzate e io non ti ho ancora perdonato del tutto.»
«Ma lascia perdere queste sciocchezze.»
«Se permetti sono sciocchezze per te. Io ci rimanevo traumatizzato.»
«D'accordo ti chiedo scusa di ciò che ho commesso in passato va bene?»
«Non va bene no. Giuliana, tua moglie, dovevo sposarla io, e imborghesirmi al tuo posto, e avere figli con lei, e comprarmi un cane, e comprare le pastine la domenica. Per te sono sciocchezze, per me no. Ma perché rivangare? Vieni al sodo, cosa vuoi?» Terenzi tacque, tornò a sedersi e prese coraggio:
«Riguarda Walter.»
«Poveraccio, eravamo molto amici. Avanzava anche una cena da me. Glie ne avrei offerte due, anche tre, anche dieci purché non morisse. E comunque era molto meglio di te: lui aveva classe.»
«Sì, glie lo riconosco, posso concordare, ma questo non l'ha salvato. Comunque quella donna, Edna, si è rammentata di un particolare.»
«Un particolare di cosa?»
«Penso tu abbia capito che fa la puttana. Frequenta il due spade, però ora ha paura che si diffonda la notizia della morte di un suo cliente. Teme di essere emarginata.»
«Scusa ma non credo proprio che quella donna faccia la puttana, anzi ritengo sia la ganza di Fabio. Il tuo giudizio è sbagliato e frettoloso. Comunque qual è il particolare? E soprattutto perché non è indiziata dell'omicidio?» Terenzi si alzò di nuovo e mi guardò fisso con occhi privi di vitalità. Il suo risolino era andato a farsi fottere. Ora avevo davanti una persona squallida che voleva propinarmi notizie false.
«So che forse non vuol dire nulla, ma qualcosa mi ha colpito forte, qui e qui» Il commissario pose il dito prima sulla tempia, poi sul cuore.
«Addirittura? Ma allora il caso si risolve. Chi sarebbe il colpevole?»
«No, non si sa ancora, ma abbiamo una traccia.»
«Vuoi spiegarti?»
«Questa è la frase che Edna ha sentito dalla bocca del nostro Walter e che ricorda benissimo: Vedi, a volte le persone che ti stanno accanto ti tradiscono e quando lo fanno, una grossa fetta del tuo mondo crolla e non lo ricomponi più.
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«Ma che fesseria, è una frase che non vuol dir niente. Ma anche fosse, a cosa potrebbe servire? E perché hai voluto vedermi? Qual è il vero motivo?»
«Sì, scusami, ci stavo arrivando. Ti affido il caso.»
«Il caso? Quale caso?»
«Anche se, come ti avevo accennato ieri, c'è un'indagine in corso, la faccio interrompere. Devi trovare chi ha ucciso Walter. Non è stata Edna, credimi sulla parola.»
«Vacci piano. Perché proprio io? E poi, io voglio essere pagato, non campo d'aria.»
«Verrai pagato bene, non preoccuparti. Puoi cominciare anche subito.» Terenzi dava già per scontato che io accettassi.
«Aspetta, signor commissario, ho numerosi impegni e dovrei dare un'occhiata all'agenda e poi non hai risposto alla mia domanda.»
«Pare che la mela marcia sia dei nostri. Ti ripeto, Edna è innocente.»
«Qui, in commissariato? Il colpevole è fra voi tutori della legge?»
«Questo si sospetta.»
«Ma CHI sospetta CHI?»
«Ancora non te lo posso dire. Agisci ma tieni la bocca chiusa, non deve trapelare nulla all'esterno. Bocca cucita,specialmente con gli organi di stampa. Tu sei una persona onesta e seria, sai lavorare.»
«Già, i panni sporchi si lavano in famiglia. Comunque al momento sono libero e accetto.» In quel periodo non navigavo certamente nell'oro, e anche se la polizia elargiva compensi da fame, avrei ricevuto di che sopravvivere.
«Hai carta bianca, agisci come meglio credi.»
«D'accordo. Posso avere un acconto e l'indirizzo di questa Edna?» Terenzi mi scrisse l'indirizzo sul retro di un modulo di denuncia in carta semplice, poi andammo al distributore di bevande e mi offrì un caffè da cinquanta centesimi e mi porse una busta con del contante. Gli consigliai di pettinarsi e di svagarsi un po', magari di recarsi al cinema con la moglie che poi avrebbe dovuto essere la mia.
«Vai al cinema con la tua donna e comprale delle noccioline, sono buone e hanno un effetto antidepressivo.» Me li ricordavo ancora i gusti di Giuliana; la portavo spesso al cinema comprando per lei mezzo chilo di noccioline; la rilassavano e la facevano felice. Terenzi accartocciò con rabbia il bicchierino del caffè e lo gettò nell'apposito contenitore e senza guardarmi, si girò e tornò in ufficio. La sua gratitudine era svanita. Io gli strillai dietro:
«E ricordati che avrei dovuto comprarle io le noccioline, e andarci io al cinema e anche a letto. Rilassati amico mio, stai invecchiando. E togli quel risolino dalla tua brutta faccia» Sua moglie avrei dovuto sposarla io, la ferita era ancora aperta e il mio cuore gridava vendetta, ma sono un buono e tutto mi scivola via unto di vaselina.
Quando uscii dallo stabile, mi feci delle domande che mi sembrarono intelligenti, ma alle quali non ero in grado di rispondere. Nelle risposte evidentemente non ci mettevo abbastanza perspicacia. Le mie erano mere domande senza risposta; la soluzione del caso si allontanava, ma forse solo apparentemente. Una cosa però mi sembrava di aver capito: Terenzi aveva paura di un'inchiesta interna che forse lo avrebbe coinvolto per non so quali ragioni, mentre invece, affidando il caso al sottoscritto con le relative indagini da effettuare, era convinto di scaricare tutta la responsabilità dell'esito su di me. Esito, beninteso, manipolabile a suo tornaconto. Sentivo molta puzza di bruciato, specie per il fatto che mi dava notizie false. Ero sicuro che Edna era stata costretta ad adescare il mio amico Walter. Poveraccio, avrebbe dovuto imparare prima che certe donne sono letali. Comunque dovevo guadagnarmi la pagnotta.
Gilberto montò in macchina con me:
«Trovata,» disse. «Era nello spogliatoio. Bagnata; l'ho sostituita con la tua. Nessuno ha visto niente.» Presi il sacchetto e ci infilai dentro la testa. Non occorreva farla analizzare, puzzava di docciaschiuma. Un odore forte, quasi medicinale, e questa era la prova regina che Fabio aveva ucciso Walter infilandosi anch'egli nella doccia senza togliersi la giacca. Il resto veniva da sé. Mancava l'arma del delitto, cioè un coltello. Ma ebbi un gran colpo di fortuna. Nel sacchetto, da una tasca della giacca, fuoriusciva qualcosa. Guardai meglio e mi accorsi che si trattava di un coltello.
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Si trattava dell'arma del delitto. Sulla lama c'era il sangue del mio amico Walter, ci avrei giurato. Cosa fare? Non potevo seguire un percorso tradizionale d'indagine, mi sarei insabbiato anzi mi avrebbero fatto insabbiare. Non mi fidavo di nessuno. Fabio era l'assassino e si era tolto la giacca bagnata con il coltello in tasca e dalla fretta non si era neppure preoccupato di nasconderla. Era convinto di trovarsi in una botte di ferro, un commissariato di polizia. Chi mai l'avrebbe perquisito?
«Senti Gil, devi fare una cosa importante.»
«Si, capo, la farò.» Avvolsi il coltello in un foglio di giornale e glie lo porsi.
«Torna in commissariato, se ti chiedono cosa vuoi rispondi che hai dimenticato il telefono nella toilette, mentre invece devi infilare questo coltello nella tasca della mia giacca.» Il mio assistente non chiese spiegazioni; scese di macchina e si diresse al commissariato.
C'era un bigliettino scritto con la stampante sul parabrezza. Mi alzai, lo presi e tornai a sedermi. C'era scritto: detective De Cesari, attento a quel che fai se vuoi campare sereno, ma se vuoi esserlo ancor di più sarai compensato. Lo piegai e lo misi nel taschino della camicia dove ci tenevo la licenza. Qualcuno sapeva già che mi sarei occupato del caso. Tenni la mano sul taschino a soppesare ciò che era contenuto. Dovevo interpretare con pacata riflessione quella frase, perché costituiva sicuramente una traccia. Indubbiamente a questo mondo c'era chi mi voleva bene e che con profonda umiltà mi avrebbe anche lustrato le scarpe. Misi la prima e partii. Sì, certamente. Volevo campare sereno. E mi mantenevo in vita con dovuta accortezza; d'altronde ero apparentemente inserito bene nel sistema, e qualcuno poteva pensare che mi ero imborghesito. E alla sera, quando bevevo in solitaria il mio goccio di Sambuca, ero sicuro che valevo più degli altri, ma ero pigro e mi seccava dimostrarlo.
Il biglietto sul parabrezza, certo. Fosse stato scritto a mano da una donna, sicuro sarebbe stato profumato. Ma una stampante no. La stampante è come un automa: niente odore né anima. Il mondo era destinato a essere governato da macchine e sarebbe stata una enorme comodità: d'altronde un robot serve a farsi grattare la schiena e allacciare le scarpe, cosa pretendere di più? Nel futuro, in ogni angolo della terra, ci sarebbe stato un robot pronto ad allacciare scarpe o a grattare schiene a uomini anziani anchilosati.
Tornò Gilberto e giunti in ufficio, chiamai Terenzi. La sua voce era tornata formale. Gli suggerii di andare nello spogliatoio e di prendere la giacca di Fabio per farla analizzare. Era bagnata e impregnata di uno shampoo particolare, forse alla menta. Il commissario rispose che ci aveva già pensato e che l'indumento era al vaglio del controllo. Non insistetti, salutai e chiusi la comunicazione. Terenzi se ne fotteva di quello che gli dicevo. Non si era interessato minimamente al caso. Io lavoravo di bluff, perché non potevo lavorare bene. E allora avevo inventato che lo shampoo fosse alla menta. Comunque volevo andare a fondo della faccenda.
Lo facevo soprattutto per Walter; meritava vendetta o almeno giustizia anche se sicuramente mi avrebbero ostacolato in ogni maniera.
Andammo in ufficio e misi al corrente Gilberto, il mio assistente, dell'incarico ricevuto. Dopodiché scesi giù al bar e feci uno spuntino, giusto un toast. Anche noi investigatori dobbiamo nutrirci, è un problema quotidiano. Tornai in auto e mi avviai alla nuova destinazione. Con la coda dell'occhio ebbi il tempo di notare che anche Gilberto era montato nella sua auto. L'abitazione di Edna era inserita in un enorme parallelepipedo. Un mega condominio costruito prendendo i pezzi da una scatola di montaggio. Ala est, scala C. Al primo piano prendere l'ascensore B che sale su nel troncone di sinistra. Sesto piano porta azzurra col tappetino “Welcome”. Tutti gli usci erano colorati per distinguere gli appartamenti visto che una riunione condominiale aveva sancito che i cognomi nelle targhette erano severamente vietati. Me lo aveva detto il commissario Terenzi. La maggior parte dei condomini aveva espresso desiderio di mantenere l'anonimato. Rimisi nel taschino il foglietto con le indicazioni per arrivare alla meta che sempre Terenzi mi aveva dato insieme alla raccomandazione di distruggerlo. Non voleva in nessun modo essere coinvolto. Invece mi poteva tornare utile per il ritorno. Avevo poca memoria e spesso mi perdevo ancora, alla mia età, nei centri commerciali. L'avere poca memoria ti salva dalla tristezza dei ricordi, belli o brutti che siano, ma ti obbliga a tenere mille bigliettini promemoria nelle tasche. Ora nel taschino della camicia i foglietti erano tre: quello trovato sul parabrezza, la licenza lavorativa e come ultimo quello contenente le indicazioni per uscire dal labirinto in cui mi trovavo. Premetti il campanello e pensai che ero fiero del mio lavoro, era il migliore che si potesse avere. Lo amavo. Per un complesso gioco di riflessi, mi ritrovai la luce del sole negli occhi e non distinsi chi mi aprì la porta e neppure chi mi sferrò un improvviso pugno in bocca mandandomi a terra ko. Io odiavo il mio lavoro. Mi alzai a fatica andando ad appoggiarmi al muro. Non c'era nessuno, la porta azzurra era chiusa. Tornai a suonare il campanello massaggiandomi la bocca e questa volta evitai di un soffio la sventola abbassandomi di lato. Replicai con un colpo violento colpendo ad un fianco il mio avversario con una mazzata data dall'unione delle mie mani a formare un unico, micidiale pugno. Quello cadde e gli fui velocemente addosso. Per quanto amassi il mio lavoro, mi trovai a chiedermi se il buon Dio ce l'avesse col sottoscritto. La situazione era uno schifo. Sotto di me c'era Fabio, il poliziotto, che cercava di liberarsi dalla mia stretta. Si divincolava, sembrava uno scarafaggio ribaltato sul dorso incapace di raddrizzarsi. Consultate Kafka.
«Che cazzo ci fai qui?» Gli urlai nell'orecchio, ma quello non pensava altro che a liberarsi dal mio peso che gli gravava interamente addosso. Nel frattempo il portone si era aperto per intero. Sempre per il solito scherzo della luce riflessa del sole, pareva per metà azzurro chiaro e per metà scuro. Quei suoi occhi color albicocca schizzavano merda da tutte le parti e dalla bocca gli fuoriusciva un alito che mi ricordava la puzza che emanavano gli scafi arrugginiti delle navi, coperti, nella parte del bagnasciuga, da uno strato di cozze morte. Dalla porta sbucò una testa, quella di Edna la quale aveva in mano un coltello. Ci venne vicino e con azione repentina passò il pugnale a Fabio. Quello, pratico di ammazzamenti, non ci pensò due volte e mi calò un fendente, ma il suo braccio venne bloccato provvidenzialmente dal mio assistente sbucato all'improvviso. Mi divincolai e calai la mia fronte forte come una roccia, sulla lurida bocca del poliziotto. La donna, rialzatasi prese a tempestarmi di pugni la schiena, ma io, girandomi, le appioppai un manrovescio che la fece rientrare orizzontalmente in casa. Fabio sanguinava copiosamente e malediva tutto ciò che stava in cielo. C'era Gilberto, il mio assistente, che lo teneva.
«Ma sei impazzito? Cosa ti è saltato in testa di aggredirmi?» Il poliziotto aveva smesso di muoversi, si lamentava che aveva perso un dente e la luce solare gli frustava gli occhi dandogli un colore strano, una variante dell'albicocca che buttava sulla cacarella.
«Tu non devi molestare le donne degli altri.» Urlò imbestialito il poliziotto. Edna tornò sul pianerottolo, non piangeva ma era spaventata. Qualcosa non mi tornava. Che ci faceva Fabio in quell'appartamento? Perché mi aveva aggredito? E soprattutto aveva plagiato Edna? Mi rivolsi a Gilberto e con un cenno gli ordinai di lasciare la presa su Fabio.
«Allora, signor poliziotto, devi spiegarmi parecchie cose.»
«Vai a farti fottere.»
«Ehi, ehi, sei un agente, comportati bene.» Fabio si premeva un fazzoletto sulla bocca dalla quale colava copiosamente sangue. Edna prontamente lo soccorse. Era premurosa, era preoccupata. I suoi occhi di brace spenta pareva prendessero fuoco. Sospettai fosse drogata e in quel momento, succube di Fabio.
«Bel quadretto, qualcosa mi dice ci sia del tenero fra voi. E allora Fabio, come si spiega la tua aggressione ad Edna a casa di Walter?»
«Affari miei.»
«Eh no, a me non prendi in giro. Tu e la tua ganza avete architettato qualcosa, Walter ci aveva visto giusto su di te.» Bluffavo naturalmente. Walter non mi aveva confidato nulla dei suoi sospetti su Fabio. Ma era morto e non poteva essere smentito.
«Cosa farnetichi? Hai una bella fantasia.»
«Davvero? Vedremo. E tu, Edna, hai nulla da dire? Ti sei fatta adescare da Walter come pianificato da questa specie di galantuomo, solo che la sua gelosia l'ha accecato.» Dissi indicando Fabio. Bluffavo ancora, ma qualcosa nel mucchio ci azzeccavo.
«Non so niente. Fabio è venuto qui per farmi domande sulla morte di Walter.» La donna, che in altro contesto poteva essere molto carina, senza trucco e senza un bel vestitino, non diceva un granché. Mi rivolsi di nuovo al poliziotto:
«Ho parlato con Alfredo, il barista, sembra che tu lo conosca bene e che sia al tuo servizio. Gli hai ordinato di spingere Walter verso Edna, questo non puoi negarlo. Inoltre il locale è frequentato anche da un tuo simile, un cialtrone come te. Si chiama Bartolo, che conosci bene.» Fabio trasalì. Io non sapevo un cazzo ma non ve l'ho mai detto: amo questo lavoro che valorizza la mia fantasia.
«Tutte balle, congetture. Lo sai meglio di me che senza prove arraffi solo mosche.»
«D'accordo. Ho un abboccamento con una persona poi attendo l'esito di un'analisi, stai in campana, Fabio. Ci scommetto, finirai in gattabuia. Goditi più che puoi la tua ganza.» La sua ganza mi sputò in faccia e io alzai il braccio per mollarle un ceffone ma prontamente Gilberto mi prese il polso. Lo odiavo il mio lavoro perché a volte avevo a che fare con insolenti puttanelle.
Non era facile trovare la via d'uscita, neppure con la mappa che mi aveva sporto il mio quasi amico commissario. Fortunatamente Gilberto ricordava perfettamente il tragitto, e non me ne meravigliai.
Qualche ora prima avevo avuto l'intuizione geniale, di chiedere a Terenzi di controllare se nel loro spogliatoio ci fosse la giacca di Fabio. Rispose quel che sappiamo, e che cioè l'indumento era in laboratorio per l'analisi e che in capo a un paio d'ore ne avremmo avuto l'esito. Del coltello nessuna menzione, ma questo giocava a mio favore. Più avanti capirete. Le risposte di Terenzi erano balle. Era una partita la nostra: balle contro bluff. Ma una cosa era certa e che cioè la giacca era in mio possesso. Non occorreva neppure esaminarla, puzza uguale puzza. Edna era anch'essa implicata nel delitto, ma a sua insaputa. Chiamai Terenzi per avere notizie.
«Caro commissario, novità?»
«Ancora niente.»
«Dì un pò, consulteresti l'archivio per cercare uno che fa di nome Bartolo di cui non conosco il cognome?»
«Ah, ci sei arrivato, bene bene.»
«Che vuoi dire che conosci questo individuo?»
«Sicuro, è un mezzo calibro, prevedevo che in qualche modo il suo nome saltasse fuori. Così vediamo se riusciamo a beccarlo una buona volta.»
«Ascolta, amico, qua il mio onorario lievita. Mi son beccato un pugno, uno sputo in faccia e ora devo indagare su un altro galantuomo che penso sia pericoloso. Inviami un messaggio con indirizzo e numero di telefono di questo Bartolo.»
«D'accordo, te lo invio entro mezz'ora. Stai tranquillo che faremo un conguaglio»
«Grazie. Ci sei andato ieri sera al cinema con tua moglie?»
«E a te cosa ti frega?»
«Le hai comprato le noccioline?» Il mio amico non aveva mai posseduto “sense of humor” e questo lo penalizzava sempre e comunque. A fine vita avrebbe perso la sua battaglia. Con l'humour invece puoi avere qualche speranza di non morire del tutto. Chiuse bruscamente la comunicazione urlando spazientito.
Io e il mio vice uscimmo all'aria aperta; Gilberto era vigile, si voltava continuamente a controllare che non fossimo seguiti.
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Erano le ventidue dello stesso giorno, stavamo appostati io e il mio assistente in auto. Mangiavo un panino con sottiletta e prosciutto e faceva caldo. Si sentivano le urla dei babbei che si riempivano di birra al bar dell'angolo. Dopo circa mezz'ora Bartolo uscì dal portone del vecchio palazzo. Spacciare droga non doveva averlo arricchito, se abitava ancora in quella bicocca. Il nostro uomo era un tracagnotto basso, unto e pelato. Vestiva succinto, le donne non dovevano proprio corrergli dietro. Era un fenomeno da baraccone, probabilmente non era dotato di parola ma di grugnito. Catturarlo e trascinarlo all'interno dell'abitacolo non fu semplice, possedeva una forza pazzesca e il suo sudore lo rendeva viscido e sgusciante. Gil gli rifilò un potente pugno sulla testa e quello schifo d'uomo ebbe un lieve mancamento il che ci permise di scaraventarlo nell'abitacolo e ammanettarlo. Lo portammo sulla riva del canale dei petroli a porto Marghera, era notte e non c'era neppure un cane. Lì poteva urlare e grugnire quanto voleva. Ci spacciammo per agenti di polizia e lo minacciammo con false accuse e con false testimonianze, di sbatterlo al fresco. La manovra fu azzardata ma dette i suoi frutti. Ultimamente lavoravo a forza di bluff. Però davano dei frutti, bastava non esagerare. Terenzi me lo descrisse a sommi capi: tracagnotto, asociale e pericoloso. Lo si poteva tranquillamente rapire ed estorcergli notizie importanti. Bartolo non avrebbe sicuramente sporto denuncia. Fu dura, sembrava che l'uomo non provasse né conoscesse il dolore. Ma temeva la prigione. Facemmo quindi leva su questo timore e quello cedette.
«Non aver paura, se canti te la cavi, ti terremo fuori da tutto.» Feci io sforzandomi di essere convincente.
«D'accordo, cosa volete sapere?» Rispose Bartolo. Mi stupii che parlasse correttamente, mi sarei aspettato solo grugniti, probabilmente aveva anche una cultura basica, io non sbaglio a giudicare.
«Così va bene. Parlaci di te e di Fabio, lo conosci bene.» Il nostro uomo parlò poco, ma lo capii benissimo. Confessò di essere uno spacciatore e di fare affari con Fabio. Ma quest'ultimo, sebbene lo tenesse al corrente delle decisioni del commissario, era poco affidabile. Ogni tanto lo avvertiva di qualche retata ed egli, Bartolo, riusciva sempre a squagliarsi.
«E' stato ucciso un poliziotto e tu sei il mandante.» Bartolo impallidì. Sotto il chiaro di luna, un cefalo guizzò fuori dall'acqua del canale dei petroli e un gufo bubolò in lontananza.
«Quel pazzo psicopatico, gode a picchiare le donne.»
«Se parli di Fabio, ci ero arrivato. Dunque?»
«Fabio. E' stato lui ad accusarmi, vero?»
«Era sulla buona strada, vi aveva smascherato ed era ad un passo dalla prova per inchiodarvi, non meritava di morire.»
«Ma di chi parli?» Eravamo tutti scesi dall'auto, più che altro perché il tracagnotto puzzava di fogna e sudore e aveva un tic nervoso che gli imponeva di contrarre le labbra come a ghignare.
«Lo sai, lo hai ucciso tu.»
«No, Wallter faceva i suo dovere e bisognava solo impaurirlo ma non uccidere. Fabio lo sapeva benissimo.»
«Come fai a sapere che è stato ucciso Walter?»
«Per deduzione logica.» Bartolo ghignò due volte, sembrava prendesse per i fondelli.
«Perché tu sai dedurre? E perché lo avrebbe ucciso?»
«Sempre per deduzione, suppongo per gelosia. Aveva ordinato ad Alfredo il barista, di consigliare Edna a Walter; sicuramente quest'ultimo avrebbe accettato.»
«E allora? Quale è stata la scintilla che ha provocato la follia omicida?»
«Ripeto, la gelosia. Fabio probabilmente si pentì subito della sua decisione. La sua donna non fa la puttana, doveva solo improvvisare. Quell'uomo è un folle.»
«Perché tu saresti normale? Un'ultima cosa: Secondo te Edna sapeva che Walter sarebbe stato assassinato?»
«Penso di no, quella stupida stava con Fabio per timore, ma lo detestava, lo reputava uno zotico imprevedibile; aveva paura di lasciarlo perché la riempiva sempre di botte.» Ne sapevo abbastanza. La testimonianza di Bartolo non contava, gli avevo promesso di tenerlo fuori, ma mi aveva dato ulteriori elementi importanti e inoltre possedevo altre risorse, era questione di poche ore. Mollammo il nostro uomo poco distante da casa sua di modo da non farci vedere, anche se ormai era notte fonda, in sua compagnia da eventuali occhi indiscreti.
«Gilberto, domani per piacere porta la macchina al lavaggio. Voglio che sia disinfettata e disinfestata a dovere, poi fammi avere lo scontrino che mi faccio rimborsare la spesa.» Terenzi doveva sganciare, altrimenti in futuro non avrebbe più potuto contare sul sottoscritto, sempreché ci fosse stato un futuro di collaborazione. Andammo a dormire. Gilberto non aveva una casa, però alloggiava in ufficio e dormiva sopra una branda nel retro. A lui andava bene così. Io, arrivato a casa, mi buttai vestito sul divano. Sul bracciolo c'era un bicchierino di Sambuca dimenticato dal giorno prima. Ne bevvi la metà e caddi tra le braccia di Morfeo che svolazzava intorno a me sparpagliando petali di papaveri.
Sognai in maniera confusa, c'era Walter che mi puntava la pistola. Il mio amico aveva lo sguardo fisso. La sua era una faccia cadaverica. Non guardava me, ma il vuoto. Parlò dicendo:
«Attento Glauco, Fabio non è l'unico colpevole della mia morte. Attento, cercheranno di farti fuori»
Walter era lì, immobile, sempre con lo sguardo fisso. Aveva l'indice sulla leva di sparo, il dito cresceva e ingigantiva. Arrivò al punto di far pressione sul grilletto che arretrava. Il mio amico aveva cambiato espressione tramutandola in stupore. Il grilletto arretrò ulteriormente perché l'indice ora occupava l'intero spazio, e ci fu lo sparo. Io scansai e la pallottola andò a penetrare il cranio di Fabio, il quale era alle mie spalle per colpirmi ma Walter mi aveva salvato.
Mi svegliai di soprassalto e notai che c'era ancora della Sambuca nel bicchierino e la buttai giù. Il divano era scomodo ma riuscii a girarmi all'altra parte. Cercai di acchiappare il sogno, l'incubo, la percezione o come cavolo vogliamo chiamare quello spezzone di allucinazione, ma mi riaddormentai sulla groppa di un cavallo alato che si dirigeva verso il sole. Alle dieci tornai a svegliarmi e andai a pisciare la Sambuca trasformata in urina. Feci entrare un po' di luce e mi buttai vestito sotto la doccia. Non era male, provateci. Mi cambiai e bevvi il caffè. Fuori c'era il sole, un astro settembrino. Mi affacciai alla finestra e uno sparo detonò nelle vicinanze. Poi mi accorsi che il vetro della finestra che avevo aperto, era andato in frantumi. C'era mancato poco. Mi ritrassi velocemente e mi abbassai. Suonò il telefono.
«Glauco, ho novità.» Era Terenzi
«Anch'io, hanno appena tentato di farmi fuori.»
«Sul serio? Hai visto chi è stato?»
«No, ma ero stato avvertito che avrebbero tentato di farmi fuori.»
«Da chi?»
«Da Walter, mi è comparsa in sogno.»
«Certo, certo. I tuoi soliti incubi. Stai al riparo piuttosto che purtroppo non posso mandarti una pattuglia perché come ben sai, la faccenda è segreta.»
«Capito. Dimmi della novità.»
«Come mi hai suggerito ho fatto analizzare la giacca di Fabio e risultava impregnata con shampoo alla menta. Si tratta di uno shampoo di marca ben specifica e non comune.»
«Ebbene?»
«Ebbene, Walter, sotto la doccia, si stava lavando i capelli con la stessa marca di shampoo.»
«Cosa ne deduci?»
«Lo sai.» Io dal canto mio feci a Terenzi rapporto della serata precedente, cioè dell'interrogatorio di Bartolo e per tutto il tempo il commissario stette in silenzio.
«Questo è quanto. Il colpevole è Fabio. Edna gli è stata accanto, ignara di essere diventata la complice di un uomo pronto a uccidere.»
«E' sufficiente, sei stato in gamba, il tuo compito è terminato.»
«Manca qualcosa, quando scuci la grana?»
«Domattina presentati nel mio ufficio.»
«Mi raccomando, ho sostenuto delle spese, tutto documentato.» Terenzi interruppe la comunicazione e io mi precipitai ancora alla finestra ma non accadde più nulla. Chiamai Gil e gli dissi che sarei andato a prenderlo immediatamente. Mezz'ora dopo eravamo in auto diretti a casa di Bartolo. Questa volta ce ne fottemmo della cautela e suonammo il campanello di casa. L'essere immondo ci aprì grugnendo e ci fece accomodare.
«Sei stato tu a spararmi addosso questa mattina quando mi sono affacciato alla finestra?» Gli chiesi a bruciapelo.
«Assolutamente no.» Rispose Bartolo contraendo più del dovuto la bocca.
«E allora chi può essere stato?»
«Andate a chiederlo a chi è abituato a uccidere.»
«Voglio crederti, amico. Se hai qualcos'altro da riferirmi, telefonami.» Gli diedi un mio biglietto da visita stampato su cartoncino giallo economico. L'amico grugnì senza contrarre la bocca. Non so perché ma cominciava a diventarmi simpatico. Ci accompagnò alla porta e lo sentimmo gorgogliare forte.
Salimmo in macchina io e Gilberto dirigendoci da Edna. Avevo ancora la mappa per orientarmi in quel labirinto, ma pensai non servisse, Gilberto ricordava sicuramente il tragitto.
Quando fummo nei meandri di quell'immensa struttura, sentii suonare il telefono, era Bartolo:
«Glauco, devo parlarti al più presto, c'è un'altra persona implicata in questa storia ed è responsabile quanto Fabio. »
«E chi sarebbe costui?»
«Non per telefono, ci vediamo a casa mia tra un'ora e mezza, mi raccomando.»
«D'accordo, Bartolo, ci sarò.» Poco dopo io e il mio assistente eravamo davanti al portone azzurro. Suonai il campanello allontanandomi dalla porta, reduce dalle precedenti esperienze; non volevo beccarmi un altro sganassone. Venne ad aprirci Edna, tranquilla e in tuta da ginnastica. Era più carina così che preparata con tutti quei cosmetici che di solito si cospargono addosso le donne. A parte un occhio nero e parecchi lividi sul collo e sicuramente altri coperti dalla tuta.
«Vedo che il tuo grande amore ti tratta bene.» La donna abbassò gli occhi e rimase zitta. Ci fece entrare e ci offrì un caffè. Era buono. La casa era ordinatissima e pulita, la donna non doveva essere proprio malaccio, aveva il senso del domestico, non c'era che dire. La mia Billy invece lavava a malapena i piatti ma lasciava intasati i filtri dello scarico.
«Ascolta, Edna, abbiamo capito che tu non sei complice nell'omicidio. Dov'è il tuo ganzo?» Lei era seduta di fronte a me e mentre sorseggiava il liquido nero, raccontò che non lo vedeva dal giorno prima, e avrebbe tanto voluto non rivederlo mai più. Scoppiò in lacrime e si giustificò che aveva preso le sue difese contro me e Gil perché aveva paura di ritorsioni da parte di Fabio. Proprio un bel campione quell'uomo. Ce ne andammo e ancora una volta fu il mio assistente a trovare l'uscita di quel formicaio. Ci precipitammo a casa di Bartolo. Al telefono non rispondeva e neppure al campanello di casa. Io e Gil bussammo e suonammo per mezz'ora ma inutilmente. Tornammo alla base e io mi buttai sulla branda di Gil. Lui invece era affacciato alla finestra e contava i colombi che c'erano sul marciapiedi.
La mattina dopo ero al cospetto di Terenzi. Gli mostrai il giornale. In prima pagina troneggiava, a caratteri cubitali, il titolo di apertura:
“Regolamento di conti della mala del Brenta: due i morti”
«Lo so, ho letto il giornale. I morti sono quei due campioni: Bartolo e Fabio, ma troveremo gli assassini.» Terenzi sorrideva dello stesso sorriso stereotipato del giorno prima. Si sentiva forte. I maggiori indiziati che erano anche testimoni, non c'erano più, caso chiuso.
«E la mia grana?» Chiesi
«Ecco qua, non c'è bisogno del conto spesa. Sono stato generoso però dimentica questa storia.» Nella busta c'erano tremila euro; mille li avrei dati a Gilberto, li meritava. Terenzi mi accompagnò di fronte al distributore di bevande calde e mi offrì ancora una volta un caffè da cinquanta centesimi. Avevo bisogno di quella cosa calda e semplice e per certi versi umile. Mi feci forza e sporsi un sacchetto al commissario il quale mi guardò interrogativo.
«Cos'è questa sporta?»
«La giacca.»
«Quale giacca?»
«Quella del tuo socio in affari. E' ancora bagnata, l'ho sempre avuta io e tu non hai fatto analizzare un cazzo.»
«Tutte balle.»
«L'altra tua pedina, Bartolo, prima di morire mi ha rivelato che è stato lui a mettermi il foglietto scritto a macchina nel parabrezza della mia auto. L'ha fatto su tuo ordine. Inoltre hai costretto col ricatto Fabio di spararmi.» Naturalmente erano tutte supposizioni, niente prove, ormai era un cliché. Ma da come mi guardava Terenzi, dovevo averci azzeccato. Comunque la prova della giacca era reale e bastante.
Terenzi perse la testa e mi aggredì. Il mio amico di un tempo col quale avevo cenato, pranzato, bevuto caffè, parlato di lavoro e di donne, era impazzito. Cominciò a tempestarmi di pugni quando all'improvviso entrò Gilberto e lo bloccò alle spalle. Poi arretrò tirandoselo dietro e aprì uno alla volta tutti i cassetti della scrivania fino a tirarne fuori un coltello con lama trenta centimetri che mi passò senza farsi vedere dal poliziotto che aveva seguito il mio caro e indispensabile Gilberto.
«Che sta succedendo qui dentro?» Chiese l'agente. Gilberto mollò subito la presa e Terenzi cercò di ricomporsi. E mentre Il commissario dava una giustificazione al suo attendente, io e Gilberto filammo via di gran fretta.
Il sospetto l'avevo avuto fin quasi l'inizio, ma lo rifiutavo e la verità era troppo aberrante. Walter non c'era più e questo mi addolorava. Non dissi nulla, tenni tutto dentro anche se ero tentato a denunciare Terenzi. Purtroppo ero sicuro che ci avrei rimesso io; il commissario era troppo potente. Aveva saputo da Fabio che l'arma del delitto era nella tasca della giacca che andò a prelevare non accorgendosi minimamente che l'indumento era asciutto. Il commissario era troppo sicuro di sé. E dove nascondere il coltello se non in un cassetto della sua scrivania? Chi vi avrebbe controllato? Una giacca è una prova relativa, ma un coltello è pur sempre l'arma del delitto e non ci si può proprio chiudere un occhio. Sicuramente Terenzi l'avrebbe fatta franca, millantando l'eliminazione di due elementi mafiosi che per lui erano diventati scomodissimi.
In ufficio, Gilberto era affacciato alla finestra, in mano teneva uno scontrino. Aveva fatto lavare la macchina.
«Non serve più amico mio.» In tasca avevo ancora i tremila euro che fortunatamente mi ero fatto sborsare prima della colluttazione.
«Ah capo, ha telefonato una signora.»
«Una signora? Cosa voleva?»
«Chiede se vuoi accettare un incarico. Chiama domani per sapere.»
«Un incarico? Di che si tratta?»
«Ara macao.»
«Ara macao? Cioè? Spiegati.»
«E' un pappagallo, è scappato dalla gabbia e chiede se puoi trovarglielo.»
«D'accordo, dille che va bene. Sono duecento euro più le spese di appostamento....io amo questo mestiere»
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